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Corte d'Appello di Bologna > Lavoro giornalistico
Data: 18/09/2001
Giudice: Veggetti
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 12/01
Parti: Natalia M. / BIBOP-CARIRE SpA
LAVORO GIORNALISTICO SUBORDINATO - SUSSISTENZA - LICENZIAMENTO ORALE - CONSEGUENZE SANZIONATORIE IN IMPRESA DI MODESTE DIMENSIONI - NULLITA' DI DIRITTO COMUNE - DIRITTO ALLE RETRIBUZIONI DAL LICENZIAMENTO AL RIPRISTINO DEL RAPPORTO.


Un giovane giornalista, all'esito di un corso sostitutivo del praticantato e di un ciclo di stage aveva continuato, per circa tre mesi, a svolgere la sua attività lavorativa presso lo stesso settimanale (il cui editore aveva, pacificamente, meno di sedici dipendenti), percependo un compenso fissato forfetariamente, con permanenza quotidiana in redazione, redigendo e firmando articoli per gli specifici settori assegnatigli, incaricando altri collaboratori di effettuare servizi giornalistici e fotografici, compilando il menabò delle pagine con i servizi di sua competenza, titolando e correggendo articoli. Al terzo mese l'editore comunicava verbalmente alle persone presenti in redazione la sospensione delle pubblicazioni del periodico, e conseguentemente l'interruzione delle collaborazioni in atto. Il giornalista rivendicava allora l'inquadramento come dipendente, (principalmente per poter usufruire del trattamento di disoccupazione) e a fronte del rifiuto aziendale chiedeva in giudizio l'accertamento della subordinazione e dell'illegittimità del licenziamento orale. Dopo lunga istruttoria l'allora pretore il Parma accoglieva entrambe le domande, condannando la società al pagamento delle differenze retributive con relativi contributi, ma facendo conseguire dall'accertata nullità del recesso verbale la prosecuzione del rapporto di lavoro subordinato solo sino alla data in cui il lavoratore aveva avanzato la prima rivendicazione tramite lettera del suo legale (circa un mese dopo il recesso). La società proponeva appello per la parte della sentenza relativa all'accertamento del lavoro subordinato, che continuava a contestare sia in assoluto sia, subordinatamente, per il criterio di calcolo del conteggio (in quanto al sig. Nico era stata riconosciuta dal giudice la qualifica di praticante con più di dodici mesi di servizio); dal suo canto il lavoratore proponeva appello incidentale per la parte della sentenza che aveva sanzionato in modo così singolare la nullità del licenziamento. La Corte d'Appello di Bologna con la sentenza in commento ha respinto l'appello principale confermando la natura subordinata del rapporto (accogliendolo solo i rilievi sui criteri di calcolo delle differenze arretrate) ed accolto l'appello incidentale, modificando la sanzione applicata al licenziamento orale. Rispetto al lavoro giornalistico la Corte richiama la «costante giurisprudenza», e afferma che «il vincolo di subordinazione e lo stabile inserimento nell'organizzazione aziendale assumono una particolare configurazione per la natura squisitamente intellettuale della relativa attività, per il carattere collettivo dell'opera redazionale, per la peculiarità dell'orario di lavoro, per i vincoli posti dalla legge per la pubblicazione del giornale e la diffusione delle notizie, di talché va ravvisata l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato allorché la prestazione lavorativa sia organicamente e stabilmente inserita nell'impresa giornalistica, finalizzata alla produzione del giornale (v. Cass. sez. lav. 14.4.2000, n- 4533; 12.8.1997, n. 7494)». Ma più che per l'accertamento della natura subordinata del rapporto, ove la pronuncia è sempre condizionata dal caso concreto, riteniamo la sentenza della Corte ancor più interessante laddove ha esaminato una fattispecie astratta tipica - qual è il licenziamento orale nelle piccole imprese - pervenendo a conclusioni di evidente portata generale. Nelle aziende con più di 15 dipendenti la sanzione per il licenziamento orale è identica a quella per violazione dell'art. 7 della legge n. 300/1970 (vizio di forma nella procedura del licenziamento disciplinare) e a quella per mancanza di giusta causa o giustificato motivo: si applica, sempre, la reintegrazione nel posto di lavoro (con possibilità di optare per l'indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità), stante la forza espansiva dell'art. 18 della legge n. 300/1970 che si estende a tutte le ipotesi di illegittimità del recesso del datore di lavoro. Così non è per le imprese minori: in caso di ingiustificatezza del licenziamento si applica l'art. 8 della legge n. 604/1966 (nel testo modificato dalla legge n. 108/1990), vale a dire, come regola, riassunzione o indennità che va da 2.5 a 6 mensilità; analogamente avviene in caso di violazione dell'art. 7 della legge n. 300/1970, a seguito delle decisioni della Corte di Cassazione S.U., 18 maggio 1994, nn. 4844, 4845 e 4846 e della Corte Costituzionale 23 novembre 1994, n. 398 che hanno stabilito una piena equiparazione tra le sanzioni contro i recessi nulli per violazione delle garanzie procedimentali per i licenziamenti disciplinari e quelle contro i vizi di sostanza (ciò in base alla considerazione, ispirata più a equità sostanziale che a stretta logica giuridica, per cui «sarebbe illogico ricollegare all'inosservanza delle garanzie procedimentali conseguenze diverse e più gravi di quelle derivanti dall'accertata insussistenza dell'illecito disciplinare»). Logica ( o illogica) vorrebbe che per la violazione dell'art. 2 (vizio di forma per assoluta mancanza di forma scritta) fosse fatto un analogo ragionamento, che è invece limitato ad una giurisprudenza minoritaria. La giurisprudenza prevalente, che la Corte d'Appello di Bologna richiama nel censurare sul punto il primo giudice, «ha ripetutamente affermato che nei rapporti sottratti al regime di tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 L. n. 108/1990 non produce effetti sulla continuità del rapporto di lavoro (V. Cass. S.U. 27.7.1999, n. 508; da ult. Cass. Sez. lav. 21.3.2000, n. 3345)». Conseguentemente i giudici bolognesi hanno dichiarato il diritto dell'appellato a percepire «la retribuzione e gli accessori (…) fino a quando non sopravvenga una valida ed efficace causa di cessazione del rapporto di lavoro», e la società, la quale aveva intransigentemente resistito alle inizialmente modeste rivendicazioni di un giornalista occupato comunque per non più di tre mesi, si è vista condannare al pagamento di una cinquantina di mensilità di retribuzioni (tra il licenziamento orale e la sentenza di secondo grado erano infatti nel frattempo passati più di quattro anni…). Invero la Corte d'Appello di Bologna con la decisione in commento, si è collocata senz'altro nel filone della giurisprudenza maggioritaria (Cass., S. U. 21 febbraio 1984, n. 1236, in MGL, 1984, 338; Cass., 28 ottobre 1989, n. 4542, in DPL, 1990, 524; Cass. 1 marzo 1996, n.1596; Cass., 24 giugno 1997, n. 561, in NGL, 1997, 527; Cass. 10 novembre 1997, n. 11094, in RFI, 1997, (voce Lavoro - rapporto), n. 1485; Cass. 20 febbraio 1999, n. 1444, in MGL, 1999, 417) ma si è, forse inconsapevolmente, differenziata dalla sentenza delle S.U. - pur citata - laddove ha dichiarato il diritto del lavoratore licenziato «a percepire la retribuzione». Le Sezioni Unite della Cassazione, infatti, pur avendo, conformemente all'indirizzo maggioritario, affermato che «il recesso non produce effetti sulla continuità giuridica del rapporto», hanno però precisato che al lavoratore sarebbe «dovuta non già la retribuzione, ma il risarcimento del danno, eventualmente commisurato alle mancate retribuzioni». Una simile precisazione non è priva di effetti pratici, elencati dalla stessa sentenza delle S.U. laddove precisa che, nella determinazione del danno, «soccorrono i normali criteri fissati per i contratti in genere, con la conseguenza che, se il datore offre la prova che l'inadempimento o il ritardo è determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (come, ad esempio, nel caso di rifiuto del lavoratore di riprendere il lavoro) non è tenuto il risarcimento (art. 1218 c.c.); che deve essere detratto dall'ammontare del danno l'aliunde perceptum che il lavoratore può aver conseguito svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa; che, trattandosi di inefficacia e non dovendo il licenziamento essere impugnato entro il termine di cui all'art. 6 legge n. 604, bensì entro i normali ter